Stereotipi e pregiudizi sessisti in ambito giudiziario: quando la violenza di genere si consuma a livello istituzionale.

(Comitato Cedaw, A.F. c. Italia, 148/2019)

 «Non ero mai riuscita a parlare fin dalla prima volta in cui il giudice mi aveva interrogato, aspro, ostile, dettando poi freddamente al cancelliere. Mi avevano condotto in una stanzetta grigia nel palazzo di giustizia avevo incominciato a parlare con spontanea confidenza. Ma il giudice, subito, alla mia sincerità aveva opposto un incredulo sarcasmo, come faceva mio padre. Era già tanto difficile esprimere in poche parole ciò che mi aveva spinto ad agire così: e, soprattutto, citare i fatti concreti. Mia madre usava dire che le donne sono sempre in torto di fronte ai fatti concreti. Sentivo che quell’uomo sarebbe stato sordo alle mie ragioni, come certo lo era a quelle delle donne di casa sua. Perciò, da allora, ho preferito tacere sempre, accettando intera la mia colpevolezza» (A. De Céspedes, Dalla parte di lei, p. 522 e 523, Milano, 2021, I ed. 1949).

I pregiudizi e gli stereotipi di genere pesano sulle donne vittime di violenza come una vera e propria spada di Damocle. Nonostante, negli ultimi anni soprattutto, la sensibilità verso il tema della violenza di genere sia aumentata e l’ordinamento cerchi di dare risposte più immediate alle richieste di aiuto delle vittime, nelle aule di giustizia la violenza c.d. “istituzionale” imperversa ed ha, talvolta, un ruolo determinante nel percorso delle persone offese che decidono di rinunciare alla denuncia del male subito. Risultare credibili dinanzi alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali, ai giudici per queste vittime è difficile: spesso uniche testimoni dei fatti, vengono sottoposte a lunghi e ripetuti interrogatori volti per lo più ad indagare su questioni personali, sulla famiglia, gli orientamenti sessuali, le scelte intime. Domande intrusive e mortificanti che non hanno alcuna correlazione con i fatti ma che servono solo a screditare la vittima.

La “vera” vittima di stupro, ad esempio, pare dover corrispondere a canoni precisi: una donna giovane, di bell’aspetto, che non abbia mai tenuto comportamenti promiscui, che non faccia uso di alcol e droghe, che non vesta in modo appariscente. La vittima “perfetta”. Le aggressioni poi, sono più verosimili se avvenute all’aperto, da parte di uno sconosciuto, magari con problemi psichici, nei confronti di una donna che cerchi di resistere in tutti in modi alla violenza, alla minaccia, alla forza, con urla e graffi, o fuggendo via.

Ma questa non è la realtà. Si tratta di pericolose preclusioni che ingabbiano il concetto di libertà sessuale, che agevolano l’impunità dei responsabili della violenza. La realtà è ben diversa. Da tempo è stato dimostrato come gran parte dei casi di stupro avvengano al chiuso, in casa, in ambienti “protetti”, consumati da aggressori pienamente coscienti, amici, parenti della vittima. Una vittima che si fida, che riceve un male inaspettato. Una vittima talmente spaventata e sopraffatta che non urla, non fugge, non reagisce.

Lo squallore di questi atti di violenza insieme all’incomprensibile incredulità dei giudici che minimizzano i fatti, che deresponsabilizzano i soggetti violenti, emerge drammaticamente dalla cronaca di tutti i giorni e si cristallizza nelle aule di tribunale, nero su bianco nelle sentenze di assoluzione degli aggressori. Con una recentissima pronuncia (caso F. c. Italia 148/2019), il Comitato CEDAW delle Nazioni Unite ha condannato l’Italia proprio per gli stereotipi sessisti che ancora si insinuano nelle aule di tribunale, rilevando come essi violino il principio dell’uguaglianza delle donne rispetto agli uomini davanti alla legge e, in generale, compromettano l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario (artt. 2, 3, 5, e 15 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne).

Il caso riguarda una donna rimasta vittima di stupro per mano di uno degli agenti delle forze dell’ordine intervenuti in suo soccorso in occasione della violenza domestica che la stessa aveva subito da parte dell’ex marito. L’agente, in particolare un carabiniere, incaricato delle indagini sul maltrattamento, già dalla sera dell’accaduto aveva iniziato a telefonare insistentemente alla donna chiedendole di accompagnarlo a cena. Le telefonate si protraevano fino a notte fonda e il mattino seguente l’agente, utilizzando un banale pretesto relativo alle indagini in corso, si recava nuovamente presso l’abitazione della donna, ancora convalescente, e ne abusava ripetutamente. Nei mesi successivi il carabiniere continuava a molestare e perseguitare la donna, la quale decideva di sporgere formale querela contro di lui.

L’uomo veniva condannato a sei anni di reclusione dal Tribunale di Cagliari per violenza sessuale e atti persecutori, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, confermate sia dai referti medici del pronto soccorso (che certificavano lividi alle ginocchia, lesioni intrauterine e perdite ematiche per le quali la donna era stata ricoverata), sia dalle testimonianze rese da altre donne che avevano intrapreso in precedenza delle relazioni con l’imputato tutte terminate per le sue condotte persecutorie e violente.

Al termine del secondo grado di giudizio veniva dichiarata la prescrizione del reato di atti persecutori e, nonostante la solidità del corredo probatorio, la Corte d’appello di Cagliari pronunciava sentenza di assoluzione dell’imputato per la violenza sessuale, ritenendo non attendibile il racconto della persona offesa ed illogico il suo comportamento in relazione alla violenza denunciata. In particolare, la Corte, ha ritenuto ambiguo il fatto che la donna, subito dopo la violenza, abbia avuto voglia di telefonare a due amiche per raccontare l’accaduto; così come strano è parso alla Corte che la persona offesa possa aver avuto, dopo lo stupro, la lucidità di raccogliere le prove della violenza, in particolare, conservando in una busta le lenzuola del letto ove era stato consumato uno dei rapporti non voluti.

Proprio l’analisi delle tracce presenti sulle lenzuola ha potuto poi rivelare la possibilità (mai confermata dalla persona offesa), che l’uomo abbia utilizzato un profilattico. Ebbene la Corte d’appello ha valutato tale dettaglio quale fondamentale ai fini del riscontro della sussistenza del consenso della donna al rapporto intimo: infatti, secondo i giudici, una vera vittima di stupro avrebbe «certamente» approfittato degli attimi in cui l’aggressore era intento ad indossare il contraccettivo per fuggire via, cosa che la persona offesa non ha fatto.

Sulla base di questi elementi i giudici hanno accettato le argomentazioni della difesa secondo cui la donna aveva in realtà acconsentito ad avere rapporti sessuali con l’imputato e aveva goduto di «un pomeriggio di leggerezza o addirittura di gioia» con lui, rendendosi poi conto di essere stata usata per un’avventura momentanea. La Corte, considerati i referti medici del pronto soccorso ove si era recata la persona offesa dopo l’aggressione, ha avallato la tesi difensiva sostenendo che, in realtà, la donna voleva solo proteggere la sua reputazione e vendicarsi dell’imputato che aveva «abusato della sua arrendevolezza alla passione erotica in un momento della vita in cui era turbata». Le lesioni refertate dai medici erano, dunque, da considerarsi frutto «dell’esuberanza dell’imputato e della sua capacità di seduzione».

La sentenza pronunciata in questi termini dalla Corte d’appello di Cagliari ha ricevuto conferma anche dalla Cassazione, che ha ritenuto congrue e logiche le motivazioni sia sull’uso del profilattico come prova della consensualità del rapporto sessuale, sia sull’inattendibilità della testimonianza della persona offesa.

Il Comitato CEDAW, interpellato dalla vittima una volta esaurite tutte le vie giudiziarie interne, ha rilevato un profondo deficit di imparzialità nei giudici italiani: tutte le prove raccolte in primo grado sono state valutate solo sulla base di «stereotipi di genere profondamente radicati che hanno portato ad attribuire un peso probatorio maggiore al racconto dell’imputato, che è stato chiaramente preferito, senza alcun esame critico delle argomentazioni della difesa». Secondo il Comitato la decisione della Corte d’appello di annullare la sentenza di condanna nei confronti dell’imputato «si è basata su percezioni distorte, credenze e miti preconcetti piuttosto che su fatti rilevanti (…). Ciò ha indotto la Corte d’appello prima e la Cassazione dopo ad interpretare e applicare in modo errato la legge, producendo un errore giudiziario e la rivittimizzazione della persona offesa».

Il Comitato ha concluso affermando che il trattamento riservato alla vittima dalle autorità giudiziarie italiane «nasconde una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia, dell’impatto dell’esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post-traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici».

Ha quindi formulato delle raccomandazioni per lo Stato italiano stabilendo, innanzitutto, un risarcimento nei confronti della ricorrente a fronte del danno da eccessiva durata del processo e da vittimizzazione secondaria a cui era stata sottoposta dalle autorità giudiziarie. Ma non solo. Il Comitato ha emanato altre raccomandazioni di portata generale con riguardo alla necessità di adottare misure efficaci al fine di garantire la celerità dei procedimenti giudiziari aventi ad oggetto reati sessuali; garantire l’imparzialità in tutti i procedimenti giudiziari  riguardanti i reati sessuali, senza influenze di pregiudizi e stereotipi di genere; fornire adeguati programmi di formazione per gli operatori di giustizia al fine di far comprendere le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e la discriminazione di genere. Ma, soprattutto, il Comitato ha raccomandato allo Stato italiano di «modificare la definizione di tutti i reati sessuali che coinvolgono le vittime in grado di dare il proprio consenso legale, per includere il consenso come elemento determinante». Sul punto ha anche specificato che l’onere della prova del consenso debba necessariamente essere spostato in capo all’imputato, nel senso che questo deve riuscire a spiegare e dimostrare le ragioni in base alle quali ha creduto che il partner fosse realmente consenziente all’atto sessuale.

Poco più di un anno fa, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata contro l’Italia condannandola per l’uso di pregiudizi giudiziari sessisti nei confronti di una donna che aveva denunciato una violenza sessuale di gruppo (caso J.L. contro Italia, 27 maggio 2021). In quel caso la Corte d’appello di Firenze ha assolto i sei imputati nonostante tutti avessero confermato di aver compiuto atti sessuali di gruppo con la donna in evidente stato di ebbrezza. In particolare, gli accusati invocavano in loro difesa la sussistenza del consenso della vittima, data la “disinvoltura” da questa manifestata durante la serata di festa alla quale avevano insieme partecipato: la donna, infatti, aveva ballato in modo disinibito lasciando apparire da sotto gli abiti la lingerie rossa, aveva bevuto, aveva accennato alla propria bisessualità, aveva accettato di farsi accompagnare dal gruppo fino alla bici perché malferma a causa dell’alcol.

I giudici fiorentini, accogliendo tali argomenti difensivi e palesando altri gravi pregiudizi sessisti, hanno sottoscritto una sentenza di assoluzione ritenendo possibile che gli imputati avessero, giustamente, presunto la sussistenza del consenso della vittima a che sei uomini facessero di lei tutto ciò che ritenevano. Peraltro, concludeva la Corte, «gli stessi imputati non erano rimasti neanche soddisfatti».

La Corte EDU, senza entrare nel merito della vicenda, ha condannato l’Italia ritenendo che la sentenza della Corte d’appello fosse «parte integrante della vittimizzazione secondaria a cui era stata esposta la vittima data, soprattutto, la natura pubblica dell’atto».  I riferimenti alla vita non lineare della donna sono stati qualificati dalla Corte di Strasburgo come «deplorevoli ed irrilevanti» ed, in generale, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dai giudici sono stati considerati quale «chiara espressione dei pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana». La Corte di Strasburgo ha concluso affermando la necessità che «le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che scoraggiano la fiducia delle vittime nella giustizia».

Le due pronunce sovranazionali lanciano un monito ben preciso alle istituzioni italiane ed in particolare ai tribunali, chiedendo ai giudici che si trovino a decidere su di un caso di stupro di “spogliarsi” da ogni moralismo, da ogni preconcetto sulle donne di cui, anche inconsapevolmente, sono intrisi. Occorre, dunque, concentrare ogni risorsa processuale nell’accertamento dell’unico elemento fondamentale della fattispecie della violenza sessuale: il consenso.

In questa prospettiva, l’attuale formulazione dell’art. 609-bis c.p., che ancora individua la violenza sessuale in quell’atto “estorto” alla vittima con violenza, minaccia o abuso di autorità, di certo non aiuta. Probabilmente, una modifica radicale della norma, volta a porre al centro della fattispecie criminosa l’elemento del libero consenso, potrebbe illuminare anche quei giudici fin ora rimasti insensibili alle evoluzioni culturali sul tema, ai richiami degli organismi sovranazionali ed alle interpretazioni giurisprudenziali interne: la Corte di cassazione, infatti, in più occasioni ha chiarito che ogni atto sessuale posto in essere in assenza di consenso della vittima è stupro.

Non a caso, già nel 2019 il GREVIO (gruppo di esperte sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, deputato al controllo della corretta applicazione della Convenzione di Istanbul), nel rapporto sull’Italia, ha esortato le autorità a modificare la norma «affinché il reato di violenza sessuale si basi sulla nozione di consenso prestato liberamente, come richiesto dall’art. 36, comma 1, della Convenzione di Istanbul». Così come l’8 marzo 2020, in occasione della giornata internazionale della donna, la allora Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinovič Burić, ha dichiarato che «il sesso senza consenso è stupro (…), i paesi europei devono modificare le proprie leggi per riflettere chiaramente questo concetto». Ha, inoltre, osservato che «sono pochi gli stati membri che trattano questo reato con la dovuta serietà, poiché le definizioni giuridiche di stupro non sono basate sulla mancanza di consenso. Ciò pone sulle persone che hanno subito uno stupro, prevalentemente donne, l’onere di dimostrare di essere vittime».

Anche sul versante della violenza domestica le cose non migliorano. Quest’anno, nell’arco di soli tre mesi, l’Italia ha ricevuto tre diverse condanne da parte della Corte EDU, per inazione o passività colpevole della magistratura che è rimasta, sostanzialmente, “a guardare” davanti alla reiterata vittimizzazione delle persone offese: 7 aprile 2022, caso Landi c. Italia, in cui la sottovalutazione dei rischi del caso e la mancata tutela da parte dello Stato, nonostante le numerose denunce della vittima, hanno portato ad una escalation criminosa culminata nell’uccisione di un bambino da parte del padre violento; 16 giugno 2022, caso De Giorgi c. Italia,  ove la Corte EDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 CEDU, per l’inerzia delle autorità italiane nel proteggere una donna e i suoi figli dalle continue violenze e maltrattamenti inflitti dal compagno; 7 luglio 2022, caso M.S. c. Italia, in cui, nonostante le denunce sporte, la vittima non ha ricevuto alcuna tutela dallo Stato e molti reati sono caduti in prescrizione.

In tutti questi casi dietro l’inerzia delle autorità giudiziarie si nascondeva un atteggiamento gravemente discriminatorio nei confronti delle donne che non sono state sufficientemente ascoltate, credute.  Nelle citate sentenze la Corte Edu, infatti, affrontando il tema dell’effettività della tutela delle vittime di violenza domestica, ha osservato che mentre da un punto di vista generale il quadro giuridico italiano sarebbe in grado di fornire protezione adeguata contro questi atti di violenza, in concreto le autorità giudiziarie, la violenza, non hanno saputo riconoscerla.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)