Maltrattamenti in famiglia e dichiarazione di adottabilità del figlio minore: la Cassazione rileva rischi di vittimizzazione secondaria per il genitore/vittima vulnerabile.

Un uomo violento che sfogava la sua aggressività sulla moglie e sui figli. Una donna vittima del marito ed allo stesso tempo ritenuta vittima di se stessa poiché, intimorita, sopportava passivamente ogni atto di abuso e sopraffazione, seppur commesso davanti agli occhi dei figli ancora in tenera età o, peggio ancora, ai loro danni.

Questo il contesto familiare all’interno del quale il Tribunale di Roma, a seguito di reiterati atti di violenza e maltrattamenti in famiglia commessi da parte di un uomo nei confronti della moglie dei figli, sospendeva la responsabilità genitoriale di entrambi sull’unica figlia in comune, così come ugualmente la sospendeva sugli altri tre figli della sola donna, nati da precedente matrimonio.

A seguito dell’instaurazione della procedura per la dichiarazione dello stato di abbandono di minore, la figlia della coppia veniva dichiarata adottabile dal Tribunale per i minorenni di Roma e affidata ad una famiglia con il divieto assoluto di contatto con i parenti di origine. Tale provvedimento veniva in seguito confermato anche in sede di appello, al termine del secondo grado di giudizio.

Adita la Corte di Cassazione dai genitori della minore, il giudizio veniva rimesso al vaglio delle Sezioni Unite.

Alla luce della cittadinanza straniera dei genitori e della bambina, pur nata e stabilmente residente in Italia, la Corte preliminarmente si è interrogata sulla sussistenza della giurisdizione italiana e, trattandosi di minore straniera che si trova in stato di abbandono sul territorio italiano, ha risolto positivamente la questione secondo quanto previsto dalle norme di diritto internazionale privato di cui alla L. n. 218 del 1995, artt. 38 – 42. Affermata la propria giurisdizione, la Corte prende in considerazione i fondamentali principi di diritto in materia di adozione di minori.

In particolare, viene richiamato il “diritto del minore ad una famiglia”, di cui alla L. n. 184 del 1983, artt. 1 – 8, ove è espressa l’esigenza che l’adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisca una misura eccezionale, una “extrema ratio”, cui è possibile ricorrere non per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici. Ciò ai fini della tutela del superiore interesse del figlio, stante il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia di origine.

Anche la normativa europea richiamata dalla Corte fornisce indicazioni molto chiare in tal senso: sia l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che l’art. 8 della CEDU, stabiliscono che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”, ed a riguardo la giurisprudenza sovranazionale si è espressa nel senso che l’accertamento giudiziale in ordine alla capacità genitoriale deve tendere a risultati quanto più possibili certi in ordine alla eventuale incapacità dei genitori, nell’interesse superiore del minore a vivere nella famiglia di origine (Corte EDU, 17/04/2021, A.I. c. Italia; Corte EDU, 12/08/2020, E.C c. Italia; Corte EDU, 13/10/2015, S.H. c. Italia).

Da tali principi la Corte ha logicamente dedotto che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore deve intendersi consentito solo in presenza di “fatti gravi”, specificati e dimostrati in concreto, indicativi in modo certo dello stato di abbandono morale e materiale del minore stesso, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale che, seppure introdotti da esperti della materia, non siano basati su “precisi elementi fattuali”. Non rilevano, invece, a tal fine le “insufficienze, debolezze e patologie, anche a carattere tendenzialmente duraturo ed anche se accertate con l’ausilio di esperti, laddove non si manifestino in gesti o atti specifici idonei a disvelare l’incapacità del genitore a porsi come riferimento affettivo ed educativo del minore”.

Nella vicenda processuale in esame e, in particolare, nella sentenza impugnata, le Sezioni Unite hanno rilevato un’ampia e convincente motivazione circa l’incapacità genitoriale del padre, dati i comportamenti violenti e prevaricatori dello stesso, concludendo, su tale punto, per la legittimità del provvedimento. Al contrario, la Corte ha evidenziato la mancanza di indicazioni circa i comportamenti della madre eventualmente pregiudizievoli per la minore.

Secondo la Corte, infatti, il giudice d’appello ha evidentemente fondato, in larga parte, il giudizio di inidoneità della madre a svolgere il suo ruolo genitoriale solo sulla condizione di dipendenza e di sudditanza della donna nei confronti del marito, il quale ha sottoposto la medesima a violenze e vessazioni continue nel corso della vita coniugale, tanto da essere condannato in via definitiva per il reato di maltrattamenti in famiglia, perpetrato anche in danno dei figli di lei.

In altre parole, i giudici di merito addebitavano alla donna non solo il fatto di essere in stato di soggezione rispetto al marito, ma anche l’incapacità di reagire alle sue ritorsioni.

Ebbene, oltre ad aver espresso con fermezza il disvalore di una siffatta pronuncia, la Corte ha innanzitutto affermato che lo stato di abbandono di un minore non può essere in alcun caso fondato sullo stato di assoggettamento in cui vive la madre per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dal proprio partner. In secondo luogo, ha ritenuto necessario denunciare come, nel complesso, la sospensione della responsabilità genitoriale della donna in capo ai figli e, soprattutto, la procedura di adozione aperta nei confronti della figlia più piccola della ricorrente si siano, senza dubbio, tradotte in una forma di “vittimizzazione secondaria” della stessa, in evidente violazione delle “disposizioni internazionali in materia di prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica”, contenute nella Convenzione di Istanbul dell’ 11 maggio del 2011.

In particolare, all’art. 18 la Convenzione prevede l’impegno da parte degli stati firmatari ad evitare il verificarsi di tale fenomeno della vittimizzazione secondaria, ossia la condizione in cui la vittima di un reato si trova quando è portata, in qualche modo, a rivivere nuovamente le sofferenze già subite o a provare altre forme di sofferenza a queste connesse, proprio durante le procedure instaurate dalle istituzioni a seguito della sua denuncia. La vittimizzazione secondaria, ha affermato la Corte, è una conseguenza spesso sottovalutata ed ha come effetto principale quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa, specie nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere.

La Corte dunque ha evidenziato come, in ogni procedimento giurisdizionale, occorre valutare con maggiore attenzione la situazione in cui si trova una vittima di violenza, stante la nuova considerazione della posizione della stessa nel panorama dei diritti fondamentali, nazionale e sovranazionale.

Le Sezioni Unite hanno dunque rinviato alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, per un nuovo esame della vicenda alla luce dei principi di diritto enucleati:

il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore , ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 15, è consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, a norma dell’art. 8 della stessa legge, che devono essere specificatamente dimostrati in concreto, e dei quali il giudice di merito deve dare conto nella decisione, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure formulati da esperti della materia, non basati si precisi elementi fattuali”; “in forza della normativa espressa dall’art. 7 della Carta di Nizza, art. 8 della CEDU e art. 18 della Convenzione di Istanbul, e delle pronunce della Corte EDU in materia, una pronuncia di stato di abbandono di un minore, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 8, non può essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall’altro”.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)