I BISOGNI DELLE VITTIME. LA COMUNITA’ SOTTILE

Le vittime di reato possono reagire al fatto traumatico subito in modalità molto differenti.

La diversità di reazione dipende dalla presenza o meno di fattori di protezione personali, dal contesto sociale di appartenenza, da una eventuale particolare condizione di vulnerabilità e da altri elementi non sempre prevedibili.

Dall’incontro con le vittime sicuramente si apprende che la risposta al reato è individuale, non è legata alla gravità oggettiva del fatto e che aver subito un crimine fa emergere una molteplicità di bisogni che l’interlocutore (FFOO, operatore sanitario, magistrato, operatore dei servizi) deve imparare a leggere tra le righe del dolore e dei processi emotivi e cognitivi spezzati dall’evento subito.

Ogni reato, per quanto possa, apparentemente, non avere un impatto rilevante, produce una reazione, e una parte di questa reazione è un mutamento di come viene percepito il mondo da quel momento in poi. Le reazioni che accompagnano questo mutamento sono molteplici, tra le più riscontrate: vulnerabilità, smarrimento, senso di impotenza, percezione di fragilità, perdita di controllo, aumento dell’attivazione, isolamento.

Subire un reato equivale a vivere un’esperienza che altera il naturale ritmo di vita e per il quale la vita non sarà mai più la stessa, ma verrà descritta, da quel momento, attraverso un prima ed un dopo.

Sicuramente la vulnerabilità della vittima e l’importanza delle reazioni che manifesta, influenzano i bisogni che potranno emergere davanti ai primi interlocutori.

Nell’occuparci dei diversi bisogni che possono manifestare le vittime, dobbiamo fare sicuramente riferimento alla Direttiva 2012/29/UE, che istituisce le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime dei reati, e che riconosce in capo alla vittima, come sintesi di tutti i suoi diritti, il “diritto di comprendere e di essere compresa”.

Il riconoscimento del diritto di comprendere risponde al bisogno della vittima di capire quello che avviene fin dai primi contatti con le forze dell’ordine e poi con la magistratura, di essere pienamente consapevole di ogni azione che viene svolta in ragione del reato. Il diritto di comprendere risponde anche al bisogno di sapere che sarà informata su quelli che sono i suoi diritti e su ogni evoluzione del caso prima, durante e dopo il procedimento penale.

Se il bisogno di comprendere fa riferimento a tutto ciò che avviene all’esterno della persona offesa, al percorso di accertamento del fatto e di condanna del colpevole, il bisogno della vittima di essere compresa pone l’attenzione sugli effetti del reato nell’interiorità della persona, in particolare sulla necessità di garantire alla vittima, e ai suoi familiari, prima, durante e dopo il procedimento penale, l’accesso ai servizi di assistenza, riservati e gratuiti, come previsto negli articoli 8 e 9 della Direttiva. Viene previsto espressamente che i servizi di assistenza dovranno fornire percorsi di sostegno psicologico ed emotivo.

Nel diritto della vittima di comprendere ed essere compresa, sono racchiusi i due principali bisogni che vengono espressi dalle vittime, ovvero: il bisogno di essere informata sul piano giuridico (diritti e procedimento) ed il bisogno di ricevere aiuto per poter esprimere e decifrare il tumulto interiore generato da quanto subito e veder riconosciute le proprie emozioni.

Questi due bisogni che, fino ad oggi, all’interno dei servizi di assistenza per le vittime di reato, in particolare di Rete Dafne, sono stati tradotti nella possibilità di usufruire di incontri di informazione sui propri diritti, con un avvocato, e nella possibilità di accedere ad incontri di sostegno psicologico, appunto con uno psicologo, in realtà possono essere ulteriormente declinati.

Quali ulteriori bisogni vengono manifestati dalle vittime ed in quale modo possono essere soddisfatti?

Il reato produce sicuramente una frattura interiore, ma anche una recisione del legame sociale tra ciascun uomo e la collettività intera. La violazione di un patto di lealtà all’interno di questo legame produce sfiducia ed il superamento di questa condizione non riguarda solo il singolo individuo, ma l’intera comunità sociale.

Rete Dafne Sardegna,  ha provato ad intercettare il bisogno di superare l’isolamento e di graduale riscoperta della fiducia nell’altro, presente in tante delle vittime alle quali ha fornito assistenza in questi anni, provando ad attivare, insieme ai servizi previsti fin dall’inizio (accoglienza, sostegno psicologico, informazione sui diritti, consulenza medico psichiatrica, mediazione, orientamento ai servizi, assistenza alla PG, incontri di gruppo) due laboratori, uno di teatro ed uno di fotografia emozionale.

I due gruppi sono stati costituiti inserendo:

-un esperto di teatro ed un esperto di fotografia;

-uno psicologo in ciascuno dei due gruppi;

-vittime di reato che si erano rivolte al servizio e ad altri servizi di assistenza in particolare ai centri antiviolenza, e che in modo chiaro avevano manifestato l’isolamento come conseguenza del reato ed il conseguente bisogno di poter trovare un contesto “protetto” nel quale poter muovere i primi passi verso un ritorno alla vita … sociale;

-persone della comunità, appassionate di teatro e fotografia, motivate a vivere un’esperienza di gruppo.

I partecipanti hanno costituito due gruppi, all’interno dei quali ciascuno conosceva la propria condizione (vittima di reato oppure no) ma non era a conoscenza della situazione personale degli altri componenti.

In ciascun gruppo attraverso uno strumento condiviso (il teatro o la fotografia) è stato possibile sperimentare la nascita di interazioni sociali positive, chi più timoroso, perché ferito, ha davvero potuto condividere momenti di relazione con l’altro, consapevole di essere affiancato. Ogni membro sapeva bene che, se avesse vissuto un momento di difficoltà (…e ad alcuni è capitato), era presente uno psicologo pronto ad accogliere il momento e a sostenere il passo successivo.

La piccola comunità delineata dal gruppo, ha rappresentato una proiezione della comunità sociale che non è indifferente ai bisogni delle vittime, ma anzi li vuole intercettare e soddisfare. È una comunità che si vuole prendere cura di chi è stato ferito e ha scelto l’isolamento nel timore di essere ferito ancora. Attraverso l’esperienza dei laboratori, ovviamente, non si è pensato di risolvere alla radice il problema dell’isolamento sociale nel quale spesso si trovano le vittime di reato, in particolare le vittime di maltrattamento, ma si è voluta offrire un’occasione per compiere un primo piccolo passo di ritorno alla vita…sociale.

Oltre a compiere un primo passo verso la ricostruzione del legame di fiducia nella comunità, i laboratori hanno permesso alle vittime una ricostruzione dell’immagine di se stessi come membri (degni) della comunità. Il potersi pensare di nuovo come persone libere, degne, di valore si è concretizzato attraverso una risata o uno sguardo di intesa con le altre persone del gruppo.

I due laboratori hanno avuto la durata di un mese, con cadenza bisettimanale, ciascun incontro della durata di due ore. L’intensità dell’esperienza ha permesso di poter osservare a più riprese il raggiungimento degli obbiettivi prefissati e di valutare eventuali effetti non previsti.

Uno di questi è stato la richiesta di riprendere l’esperienza nel mese di settembre e di renderla stabile. La richiesta, pur comprensibile, ha suscitato ulteriori quesiti sui quali ci stiamo confrontando, perché non esistono risposte certe, ma ciascun contesto necessita di una lettura accurata per la ricerca della risposta a quella singola e specifica realtà.

Sicuramente, abbiamo compreso che i laboratori rappresentano una risposta ad un bisogno spesso manifestato dalle vittime di reato: il bisogno di essere aiutate a ricostruire il legame di fiducia con la comunità. I laboratori sono anche un valido strumento di sollecitazione della comunità perché sia rete consapevole, capace di ascoltare ed adoperarsi per intercettare i bisogni di chi è stato violato.

Il Presidente di Rete Dafne Italia, Marco Bouchard, nel descrivere le prospettive di accoglienza e assistenza delle vittime, spesso fa riferimento a Zenobia, una delle città sottili, descritte da Italo Calvino. Zenobia è un luogo mai esistito prima, nel quale la città prende la forma dei desideri degli abitanti. Io credo che la nostra ambizione debba essere ancora più alta: dovemmo costruire una nuova città sottile capace di dare forma ai bisogni dei propri abitanti. Accogliere i bisogni è più impellente e più profondo, rispetto alla realizzazione dei desideri. Soddisfare i bisogni attiene alla cura della persona ed insieme al senso di responsabilità della comunità.

Strutturare servizi e opportunità per la persona offesa da un fatto illecito, vuol dire offrire ad ogni singola persona un progetto personalizzato che parta dalla lettura dei suoi specifici bisogni e che davvero possa farle percepire l’aria tiepida e ovattata di una città sottile.

Annina Sardara

Responsabile del Coordinamento

Rete Dafne Sardegna