Wikipedia definisce un “discorso d’incitamento all’odio”, o “discorso d’odio” (si tratta in realtà di una traduzione dell’espressione inglese hate speech), come “una comunicazione con elementi verbali e non verbali mirati a esprimere e diffondere odio e intolleranza, o a incitare al pregiudizio o alla paura verso un individuo o un gruppo d’individui accomunati da etnia, orientamento sessuale o religioso, disabilità, altra appartenenza sociale o culturale. Il fenomeno ha acquisito particolare visibilità ed estensione con la diffusione delle reti sociali, alimentando il dibattito giuridico, e spingendo i governi e l’associazionismo ad attuare azioni di contenimento o repressione”. 

Parliamo di crimini d’odio quando ci troviamo di fronte a un reato comune, ma con un’aggravante: il reato è motivato dall’ostilità verso il gruppo sociale a cui la persona appartiene. Come leggiamo in un prezioso documento realizzato da COSPE Onlus nell’ambito del progetto europeo “V-START – Sensibilizzazione e lavoro di rete per le vittime dei crimini d’odio”: “Quasi ogni reato può diventare un crimine d’odio: ciò che trasforma un’aggressione o una persecuzione in crimine d’odio è il fatto che la vittima venga “scelta” sulla base della sua appartenenza (o presunta appartenenza) ad un certo “gruppo”: ad esempio se indossi un simbolo religioso, come il velo, la kippah, etc., se ha il colore della pelle o tratti somatici diversi da quelli della maggioranza delle persone che ti circondano; se mostri atteggiamenti affettuosi verso persone del tuo stesso sesso. […] Quindi sono da considerarsi crimini d’odio tutte le aggressioni fisiche o verbali e/o i danneggiamenti di proprietà o simboli, ad esempio luoghi di culto, in cui la causa della violenza o della persecuzione sono la religione, il colore della pelle, la nazionalità, l’appartenenza ad una minoranza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o la disabilità”.

Ciò che, da queste poche righe, salta subito agli occhi, è che l’odio sorge laddove c’è diversità. Se fossimo tutti uguali, se ci riconoscessimo tutti gli uni negli altri – come in uno specchio – se fossimo tutti dalla stessa parte, etc., molto probabilmente non si produrrebbe dell’odio.

Occorre definire cos’è questa “diversità”, o meglio cos’è che rende un altro diverso da me. La diversità può derivare dall’immagine: se lo specchio ci rimanda un’immagine diversa da quella che ci aspettiamo, da quella in cui siamo abituati a riconoscerci – e che quindi rinforza anche la nostra identità – questo può produrre tutta una serie di reazioni nella persona. Le reazioni sono molto soggettive; per esempio possiamo essere intimoriti o spaventati, possiamo provare un senso di insicurezza o instabilità, o ancora possiamo provare una curiosità verso ciò che non conosciamo, o che magari pensavamo di conoscere e che ora invece si presenta come “diverso”. 

È sufficiente un’immagine che mette in campo una diversità per generare odio? Credo di no. L’immagine può sicuramente giocare una parte decisiva, ma solo nel momento in cui diventa veicolo di qualcos’altro, che non si riduce a ciò che appare, ma che è strettamente correlato a ciò che si è. È proprio a partire dall’essere di una persona che si può scatenare l’odio. Ed è per questo che l’odio mira a ciò che una persona ha di più intimo e prezioso. Non basta sventolare una bandiera, o indossare un simbolo, per scatenare odio, ma è ciò che lega intimamente la persona a quella bandiera o a quel simbolo che può produrre un odio irrefrenabile.

Proviamo a definire meglio cosa intendiamo quando parliamo di ciò che si è, vale a dire dell’essere. Per dare una possibile definizione, dobbiamo introdurre un concetto psicoanalitico fondamentale, concetto già introdotto da Sigmund Freud, ma ripreso in particolar modo da Jacques Lacan. Si tratta del concetto di godimento. Per farla breve, il godimento è legato a ciò che mi procura una soddisfazione. Il godimento in questo senso definisce l’essere della persona, la sua intimità, il suo “nucleo” (Kern direbbe Freud), qualcosa che non è direttamente percepibile ad uno sguardo esterno.

Un celebre psicoanalista di Parigi, Jacques-Alain Miller, scrive: “Quando si esprime una certa densità di popolazioni, di tradizioni diverse, di culture diverse, accade che il vicino tenda a disturbarvi, perché non celebra la festa nel vostro stesso modo. Se non celebra la festa come voi, vuol dire che gode in modo diverso dal vostro, cosa rispetto a cui siete intolleranti. […] Quando l’Altro (colui che è portatore di una diversità) si avvicina un pò troppo, quando si mescola a voi, come dice Lacan, ebbene ci sono nuovi fantasmi che vertono in particolare sul sovrappiù di godimento dell’Altro. […] Si sa che il sovrappiù di godimento può concretarsi (per esempio) nell’imputazione all’Altro di un’attività instancabile, di un gusto eccessivo per il lavoro, ma anche nell’attribuirgli una smisurata pigrizia e un rifiuto del lavoro. […] è divertente constatare con quale rapidità, sul piano di simili interpretazioni, si è passati dai rimproveri di rifiutare il lavoro a quelli di rubare il lavoro. In ogni modo, la costante è l’idea che l’altro voglia ricavare una parte indebita di godimento” (J.-A. Miller, Le cause oscure del razzismo, in Attualità Lacaniana, n. 28, luglio/dicembre 2020, Rosenberg & Sellier, Torino 2020).

Da questa esemplificazione, cogliamo che non si tratta solo di un godimento “diverso”, “anomalo”, differente dal mio, ma di un godimento che apparentemente ha in sé qualcosa di più, qualcosa che permette l’accesso ad un plus di soddisfazione. Ed è proprio lì che l’odio sorge.

C’è ancora un elemento molto importante che occorre tenere a mente: questa diversità che percepisco nell’altro in realtà non può che essere già parte di me stesso. A dimostrazione di ciò, ci si potrebbe chiedere come sia possibile cogliere qualcosa che fa parte dell’altro, a meno che non si tratti di qualcosa che è già “dentro di me”, qualcosa da cui in un certo senso sono stato toccato, ma di cui non ho particolare consapevolezza. Se quella diversità genera odio è proprio perché si tratta di qualcosa che in un certo senso mi appartiene, ma di cui non voglio sapere nulla, qualcosa che mi disturba profondamente proprio perché potrebbe mettere in crisi l’idea che ho di me stesso e su cui si basa la mia esistenza.

L’odio ha come obiettivo l’annientamento, la cancellazione della diversità, e quindi – come purtroppo vediamo dalla cronaca – l’eliminazione della persona che sarebbe “portatrice” di quella diversità.

Mi è capitato per un certo periodo d’incontrare a Rete Dafne una giovane donna che spesso, durante i colloqui, mi poneva la domanda “Secondo Lei sono normale?”. Difficile ritenere che la giovane si aspettasse da me una risposta secca a questa strana domanda – che ormai era diventata quasi un intercalare; da parte mia, ad un certo punto, mi ero limitato a dire: “Ma è sicura che per Lei sia così importante essere normale?”.

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