Vittime di body shaming. La tutela del “deriso”.

Corte di cassazione, Sez. V penale, sentenza n. 2251 del 14/12/2022, dep. 19/01/2023.

Per body shaming si intende qualsiasi azione finalizzata “a far provare vergogna”, ad umiliare qualcuno per le sue caratteristiche corporee. Tale pratica crudele, spesso fine a sé stessa, talvolta deriva da sentimenti di odio generalizzato e da atteggiamenti disfunzionali sul piano sociale e relazionale come la discriminazione razziale, di genere, l’omofobia etc.

La caratteristica fisica statisticamente più interessata dal body shaming è senza dubbio l’eccesso ponderale, ovvero il fat-shaming, ma nel mirino degli “haters” entrano anche la magrezza eccessiva, la bassa statura, la calvizie, il colore dei capelli (soprattutto il rosso), alcune caratteristiche del viso (ad es. un naso molto pronunciato), cicatrici o menomazioni permanenti. Si tratta di stereotipi che affondano le loro radici in un passato secolare. L’eccesso di peso, ad esempio, è sempre stato associato alla debolezza come difetto caratteriale e, comunque, inteso alla stregua di una colpa da espiare: «guai a voi, uomini pingui», tuonava il profeta Amos settecento anni prima di Cristo; mentre il severo profeta Isaia associava gli obesi ai malvagi, «perché la loro voracità oltrepassa i limiti del lecito». E se oggi sono perlopiù le donne a essere vittima di body shaming, per molti secoli lo stigma è stato rivolto ai corpi maschili: nell’ideale greco kalós kái agathós (“bello e buono”), secondo cui colui che è bello possiede tutte le virtù, la cedevolezza del grasso non era solo un’impressione tattile ma era sintomo della stessa “mollezza morale”; le donne, invece, già escluse dalla società perché ritenute inferiori, potevano permettersi di essere grasse e, quindi, deboli. Umiliante, secondo le cronache dell’epoca, il trattamento che gli spartani riservavano a chi in sovrappeso: ogni dieci giorni i giovani dovevano presentarsi nudi al cospetto degli efori, i quali ne esaminavano il fisico cercando segni di “fiacca effeminatezza”, tra cui un ventre sporgente.

Una sorta di bullismo ante litteram insomma che, nonostante l’evoluzione della società moderna, la continua sensibilizzazione ed il contrasto alle varie forme di discriminazione, rimane un fenomeno sempre attuale. E, anzi, oggi si rivela ancor più grave e dannoso dato il suo dilagare negli spazi digitali e soprattutto sui social network che, troppo spesso, piuttosto che fungere da strumenti di interazione e confronto aperto si rivelano luoghi di pregiudizio, ove gli utenti si spingono a tenere comportamenti che difficilmente replicherebbero nella vita “reale” e quotidiana. Luoghi, questi, ove la sensibilità collettiva verso la fisicità è cresciuta oltre misura e, con essa, in molti casi, l’insoddisfazione per la propria immagine corporea.

Vittime del body shaming online possono essere tutti, donne e uomini, soggetti più o meno giovani, ma in misura maggiore vengono colpite le donne e gli adolescenti. La condotta degli haters può integrare, a seconda delle modalità e della intensità, diversi reati, dalle minacce (art. 612 c.p.), agli atti persecutori (art. 612 bis c.p.), fino anche all’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.). Il reato che più spesso viene a configurarsi è, però, rappresentato dalla diffamazione (art. 595 c.p.), e la Corte di cassazione sul punto ha affermato chiaramente che postare sui social network commenti e foto lesive della dignità altrui rappresenta una forma di diffamazione aggravata, vista la possibilità che il messaggio, una volta pubblicato, possa raggiungere un elevato numero di persone con un maggiore impatto in termini di danno sull’offeso.

In questi termini si è espressa la Cassazione anche con la recente pronuncia che qui si segnala. Il caso riguarda un uomo che, attraverso il noto social network facebook, pubblicava le sue opinioni in un “post” dedicato ai problemi di viabilità del suo paese di residenza, facendo espresso riferimento ai deficit visivi della persona offesa e scrivendo in particolare: «punti di vista, anche storta… mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata», con più “emoticon” simboleggianti risate.

Condannato all’esito del primo grado di giudizio per il reato di diffamazione aggravata, l’imputato veniva invece assolto in appello in seguito alla riqualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 594 c.p. (reato di ingiuria, ormai depenalizzato dal legislatore nel 2016). La Corte d’appello giungeva a tale risultato partendo dall’erroneo presupposto secondo il quale la persona offesa avrebbe avuto la possibilità di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate sulla chat, trascurando però di considerare che i messaggi lesivi della reputazione della vittima, intanto, avevano immediatamente raggiunto una moltitudine di persone.

La Corte di cassazione, adita dalla parte civile, ha preliminarmente evidenziato come la reputazione individuale sia un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, come ricordato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 150 del 2021, ed ha affermato che «integra il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche» (così anche Cass. pen., Sez. V, n. 32789 del 13/05/2016). Sempre con riferimento alla diffamazione, la Corte ha ricordato come essa sia una fattispecie avente natura di reato di evento, ossia che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa pronunciata nei confronti della vittima.

Tracciando poi, ancora una volta, la distinzione tra il reato di ingiuria e di diffamazione la Corte ha, inoltre, chiarito che se nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, nella diffamazione la vittima resta estranea alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posta in condizione di interloquire con l’offensore (sul punto, Cass. pen., Sez. V, n. 10313 del 17.01.2019). «Nei casi in cui il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, il punto, allora, è capire se e quando l’offeso sia stato concretamente in condizioni di replicare», con particolare attenzione, continua la Corte, alla verifica della sussistenza del «requisito della contestualità, tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso, che vale a configurare l’ipotesi di ingiuria».

Fatte tali premesse, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata osservando che se fosse vero, come sostenuto dal Giudice di appello, che la vittima al momento del fatto poteva ed era in grado di replicare alle offese diffuse sulla piattaforma digitale, è vero anche che tale possibilità le veniva data solo in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network, quando il reato di diffamazione era stato ormai commesso ai suoi danni essendo le offese già visibili per un numero indeterminato di utenti.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)